martedì, Aprile 30, 2024
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Intervista a Mario Fanali – Re del Bancone

Una intervista al Re del bancone in occasione della sua ultima uscita musicale, intervista Furio Capozzi

Intervista al Re del Bancone

IL Re del Bancone

Il Museo della Navi di Nemi e il mosaico ritrovato delle navi di Caligola

Scendiamo lungo la strada che porta verso il lago di Nemi chiamato anche Speculum Dianae in onore a Diana Nemorense.

Ammirando il paesaggio possiamo capire perché il luogo fu caro all’imperatore Caligola che qui aveva anche una villa.

Caligola decise di posizionare sul lago, dove era presente anche il Santuario di Diana, anche due imponenti navi principalmente con funzione di rappresentanza ma anche di svago (o forse di culto).

Leggendo le parole che Svetonio dedica all’imperatore romano possiamo immaginare che quelle navi, oltre ad essere imponenti, fossero anche riccamente decorate.

Quelle navi, però, risentirono dalla damnatio memoriae che colpì il loro armatore: furono affondate in modo tale che se ne persero le tracce.

Nel tempo la memoria della navi affondate è stata alimentata da alcuni ritrovamenti fortuiti da parte di pescatori tanto che nel tempo vari furono i tentativi di recuperare le navi.

Il tentativo che ebbe successo fu quello in epoca fascista quando, attraverso un’imponente e complessa opera di ingegneria archeologica consistente nell’abbassamento del livello dell’acqua, vennero recuperati gli scafi delle due navi di Caligola.

Un rinvenimento importante per la storia e anche per le conoscenze sulle tecniche di costruzione navale dei romani. 

Il lago ha operato come Nemesi e dopo aver conservato le navi sul suo fondo, le ha restituite facendo conoscere ciò che avrebbe dovuto essere perso per sempre. 

L’importanza del ritrovamento aveva portato tra il 1933 e il 1939 anche alla costruzione, affidata a Vittorio Morpurgo, del Museo delle Navi Romane. 

Entriamo a visitare il Museo accompagnati dalla direttrice Daniela De Angelis che ci guida tra l’architettura del luogo, le collezioni custodite e la storia del Museo.

L’architettura del luogo è significativa: già l’entrata, i materiali usati e alcune soluzioni tecniche, come le scale elicoidali, ci dicono che siamo in presenza di un’opera  espressione del razionalismo all’epoca in voga.

Ma è la funzione dell’architettura che è ancora più significativa: è la prima volta che in Italia si costruisce un Museo specificamente progettato per il suo contenuto e capace di custodire anche il basolato dell’antica strada romana che conduceva al Santuario di Diana.

Due spazi enormi come hangar costruiti come se fossero bacini di carenaggio dove collocare gli scafi delle navi collegati da un corpo centrale dove attraverso scale elicoidali si accede ad un camminamento che consente di ammirare i resti dall’alto.

Purtroppo, però, oggi possiamo soltanto immaginare guardando alcune foto dell’epoca come poteva essere ammirare quegli scafi: i resti delle navi sono andati perduti a seguito di un incendio che si sviluppò nel 1944.

Quell’incendio rappresenta un vero e proprio cold case.

Non sappiamo se sia stato doloso o colposo e di chi sia la responsabilità: molte le interpretazioni che, tempo per tempo, sono state avanzate.

Una prima ipotesi dolosa vuole l’incendio avvenuto per mano tedesca nel momento della ritirata come sembrerebbe emergere da alcuni atti di una Commissione dell’epoca. Una seconda ipotesi dolosa attribuisce la responsabilità ai partigiani mentre una terza ipotesi pensa ad un incendio per recuperare il piombo dai reperti. Una quarta ipotesi è quella che propende per un incendio colposo dovuto ad una fiamma partita dagli sfollati che avevano trovato riparo nei locali del Museo.

Quel che possiamo dire con linguaggio del diritto è che il fatto ad oggi è a carico di ignoti e che l’incendio ha distrutto le navi.

Di quegli scafi originali oggi restano alcuni importanti reperti oltre alla loro riproduzione in grado di farci comprendere quale potesse essere l’imponenza delle navi, la ricchezza degli allestimenti e le soluzioni tecniche come i cuscinetti a sfera o la lana come protezione dello scafo.

Ma uno dei reperti più significativi è senz’altro una parte del mosaico in opus sectile per abbellire la coperta delle navi di Caligola.

Ritrovato in una collezione privata a New York dai Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, oggi è stato restituito al Museo.

Nel Museo possiamo ammirare però, oltre ad alcune opere scultoree come Minerva e alcuni ex voto, un’altra bellissima statua di un Imperatore in trono (forse lo stesso Caligola) recuperata dal Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza di Roma.

L’uscita dal Museo conserva un’ultima sorpresa: la vista aperta sul lago di Nemi che si può fotografare con un colpo d’occhio.

Intervista a Felice Altarocca (Paxarmata)

FORMAZIONE PAXARMATA
VOCE: FELICE ALTAROCCA
CHITARRA: MARCO SALES
BASSO: BEZ YORKE
BATTERIA: MICHELE GISONNI

Inizio attività: 2015
Dischi prodotti in studio finora: MAMHILAPINATAPAI ed EUROSPLEEEN. da una chat wapp

  • Ciao Felice. Come stai?
  • Felice: Tutto bene, grazie.
    Mi fa piacere. Allora Felice, parlando del vostro primo disco, cosa significa il nome “Mamhilapintapai“?
  • Felice: Significa “Guardare negli occhi una persona aspettando che ti dica quello che tu vuoi che ti dica“. È una parola di una popolazione indigena della Terra del Fuoco.
  • Bello.
  • Felice: Sì, bellissima.
  • Che brani contiene il primo disco?
  • Felice: L’eterno padre, Arancia Metalmeccanica, S’ì fosse foco (cover De Andrè, da una poesia di Cecco Angiolieri), Normal Bates, Il lavoro rende schiavi, Spaisà, Il dissidente, Boiati.
  • I testi Felice li scrivi tutti tu, giusto?
  • Felice: Sì, in perfetta solitudine.
  • Veniamo alla formazione: siete sempre stati voi quattro o è cambiata nel tempo?
  • Felice: È sempre stata la stessa, fatta eccezione per il batterista che abbiamo cambiato. Il nostro primo batterista Andrea Marazzi ora è un ottimo tatuatore, e il suo posto l’ha preso Michele.
  • Ti va di parlarmi di Eurspleen?
  • Felice: Certo, Eurospleen l’abbiamo registrato nel 2017 allo Studio Nero, a differenza del precedente che abbiamo fatto tutto “in casa”. Contiene 5 pezzi: Eurospleen, Subconscio, Carlo, Oblio, e Deja vu.
  • Cos’è lo Studio Nero?
  • Felice: È uno studio che nel 2017  e anche negli anni precedenti era abbastanza frequentato. Se non erro lì fu registrato il primo disco di Calcutta.
  • Per quanto riguarda la parte musicale, chi la scrive?
  • Felice: Non ci sono vere e proprie composizioni, nasce tutto in maniera collettiva da spunti di Bez e Marco.
  • Quindi in modalità Jam-Session, diciamo?
  • Felice: Si, esatto. E quando prendono un senso cerchiamo di dargli una forma di canzone con testo eccetera.
  • Per quanto riguarda la genesi dei testi: hai una linea di lavoro precisa? Come ti lasci ispirare?
  • Felice: Possono nascere da concetti che mi girano in testa, magari da anni. O anche da fascinazioni. Dai suoni delle parole. Talvolta mi sono divertito anche a dare un senso a puri collage di parole: il testo pare segua un filo logico invece è pura architettura. Possono avere una tematica sociopolitica, anche se mi piace metterci dentro sempre un po’ di ironia e di lirismo, quindi direi che sono psicologico-sociali. E ovviamente devono contenere qualche enigma, qualche gioco di parole, qualche “chicca” che magari vedo solo io, tipo i fotogrammi subliminali nei film.
  • Hai un brano preferito, che ti sta più a cuore?
  • Felice: Ce ne sta uno tra le cose nuove che stiamo facendo, ma tra quelle già fuori… Spaisà! Il testo parla dello spaesamento esistenziale, e gioca col titolo del film “Paisà” di Rossellini.
  • Quindi al momento cosa state preparando di nuovo?
  • Felice: Abbiamo 6/7 pezzi. Ne vorremmo mettere su perlomeno il doppio, per sceglierne un po’ e fare il disco. Ma col Covid stiamo andando molto lenti.
  • Come genere vi definite Alternative/rock?
  • Felice: Sì, direi che può andare.
  • Quanti live avete all’attivo, se si può fare una stima?
  • Felice: 74 in totale.
  • Tutti a Roma o anche fuori?
  • Felice: Fino ad oggi la maggior parte a Roma, ma anche qualcosa nei dintorni come Ferentino, Albano, Velletri, Sutri.
  • Qual è il locale che ti manca più in assoluto?
  • Felice: Le Mura, e il New Rockness ad Albano. 
  • Felice, io ti ringrazio, per oggi è tutto. Salutami gli altri componenti del gruppo, e speriamo di poterci vedere al più presto sotto ad un palco. 
  • Felice: Grazie, a presto.

Le liberalizzazioni economiche come giustizia sociale e base per la crescita

Chi oggi ha più di 45-50 anni ricorderà chiaramente come funzionavano le cose prima del Gennaio 1998, quando l’allora Ministro dell’industria Luigi Bersani, liberalizzò con un decreto molti settori del commercio italiano. Prima di quella che venne chiamata ‘prima lenzuolata Bersani’ a cui seguirono molte altre, tese a liberalizzare diversi settori, le cose erano diverse da come le vediamo adesso. Ad esempio, per aprire un negozietto per vendere vestiti, il candidato sarebbe dovuto andare al Comune, verificare se ci fosse spazio nella zona per aprire tale negozio, sulla base del Piano Commercio deciso da politici, spesso incompetenti della materia ma competenti di quella clientelare, e nel caso ci fosse stato posto libero per quella attività, chiedere la licenza che sarebbe stata assegnata tra i richiedenti con procedure a dire poco discutibili, oppure avrebbe dovuto acquistare una Licenza commerciale da chi ne aveva una, di fatto anche non  attiva ma detenuta in maniera parassitaria al fine di lucrare sulla base di una posizione acquisita in precedenza.

A dirla proprio tutta, non tutti i meriti vanno all’allora Ministro Bersani, infatti il decreto legislativo 16 Marzo del 1999, n. 79 detto anche solo Decreto Bersani dal nome del suo ispiratore, è stato un atto normativo della Repubblica Italiana di recepimento della direttiva comunitaria 96/92/CE del Parlamento e del Consiglio Europeo del 19 Dicembre 1996 a cui seguirono altri provvedimenti tra cui l’ultimo della serie, quello del 31 Gennaio 2007 n. 7 convertito in legge il 2 Aprile del 2007 n. 40 avente l’intento di tutelare i consumatori e promuovere la concorrenza e snellire la burocrazia.

In un soffio l’Italia fu liberata da sistemi che impedivano la concorrenza, da situazioni che producevano rendite di posizione ingiustificate, furono eliminate le penali per la estinzione anticipata dei mutui, furono eliminate le tariffe minime dei professionisti, insomma fu dato uno scossone alla economia con le conseguenze positive che andremo adesso ad esaminare.

Prima tra tutte ci fu una giustizia di uguaglianza tra i cittadini, ovvero la questione legata alla possibilità di esercitare un commercio o una attività senza garantire un numero chiuso redditizio per chi già quella professione o attività svolgeva precedentemente. A questo punto ad esempio, mentre prima il bar della piazza nota X, poteva avere una rendita dettata dalla posizione e dal fatto che nessuno poteva posizionarsi dove stava lui, adesso doveva fare i conti con la brutta bestia (per lui si intende) chiamata concorrenza.

Il risultato positivo è derivato dalla volontà di sopravvivenza degli operatori: finalmente per sopravvivere dovevano offrire un migliore servizio al cliente senza contare sulla posizione commerciale e sulla scarsità di altri concorrenti. Oltretutto, chi ha vissuto negli anni antecedenti questo pacchetto normativo, ricorderà senza meno i Sabato Pomeriggio e le domeniche commercialmente deserti dovuti un po’ alla pancia piena ed un po’ alla normativa che imponeva perfino gli orari di apertura e chiusura. Oggi sembra impossibile, ma questo è successo realmente e si può dire con orgoglio che la nostra Europa ci ha liberato con quella che fu chiamata “libertà” di insediamento delle attività economiche, ovvero la libertà di operare in qualsiasi territorio della Comunione europea senza avere paletti più o meno nascosti a creare un ostacolo.

Stessa sorte subirono le attività della distribuzione di carburanti nel 1998 con il decreto legislativo n. 32 che consentirono a molti di realizzare impianti di distribuzione di carburanti ed accessori (bar tabacchi etc.) ovunque fosse stato commercialmente attrattivo (nel rispetto delle altre norme di settore quali quelle stradali, urbanistiche etc.)

Oggi non se ne parla più ma all’epoca mi ricordo le discussioni filosofiche o pseudo-tali con commercianti che venivano detronizzati e che si affacciavano al mondo reale della libera concorrenza. Molti addirittura si lamentavano del fatto che non potevano avere una sorta di liquidazione derivante dalla vendita della loro Licenza, si intende non dell’avviamento ma della mera Licenza numerica, che avrebbe consentito loro di operare in altri luoghi scelti dall’acquirente.

Molti cittadini, liberati, ma con capacità, iniziarono una attività nel settore dove erano competenti ma dove prima non era possibile operare per i suddetti paletti: aprirono nuovi Bar, negozi specializzati nelle vendite più disparate, cambiarono gli orari e si iniziò a vedere qualche apertura la Domenica, il Sabato pomeriggio, insomma ci fu una rinascita commerciale.

Certo, dopo questa liberalizzazione che si pensava da parte di qualcuno come l’assassina delle attività al dettaglio, si cominciò ad affacciare in sordina, quella che realmente si dimostrò come la vera artefice di un attacco al Commercio al dettaglio: Amazon nel 2010.

Anche qui, andiamo a vedere come questo avvento, ovvero l’ingresso di Amazon in Italia nel 2010 influì sul commercio Italiano che viveva di liberalizzazioni appena introdotte.

Molti chiusero ed ancora oggi stanno chiudendo, principalmente si tratta di chi offre beni che possono essere più facilmente acquistati on-line: oggetti di larghissimo consumo e di basso valore aggiunto. Ma come le liberalizzazioni aiutarono il residuo commercio in questa transizione di acquisti digitali? Lo fecero attraverso la possibilità di cambiare pelle come fa un serpente ad ogni cambio di stagione: in maniera naturale e veloce.

Insomma, anche per molti che prima si lamentavano delle liberalizzazioni, quella fu una occasione per sopravvivere alla avanzata del nuovo.

Oggi sopravvivono ad Amazon le attività che svolgono vendite che possono essere fatte più velocemente di Amazon nei negozi di vicinato per prodotti il cui acquisto non può o non vuole essere spostato avanti nel tempo, oppure, e qui c’è la rivoluzione del commercio al dettaglio, la vendita di un prodotto che vuole essere una esperienza per chi lo acquista. Mi riferisco ad esempio all’acquisto di uno strumento musicale dove ci sia l’esigenza di acquistarlo provandolo e confrontandosi come il commerciante che, in questo caso, esce dal bancone per condividere tale esperienza, offrendo anche una assistenza in fase di acquisto oppure futura, diversa dalla gelata vendita on-line dove (come succede su Amazon) addirittura le risposte alle domande sull’articolo, non le offre il venditore ma gli altri acquirenti dello stesso prodotto.

Sei di Destra o di Sinistra se…

Ho trattato nel libro (sei di destra, di sinistra o di centro, populista sovranista o radical chic? – la famiglia felice come sistema economico ideale) il significato di destra e sinistra visto dal punto di vista della domanda politica dei singoli individui in una prospettiva economica.

Dall’altro lato l’offerta politica è invece prodotta da partiti o movimenti che cercano di attrarre elettori esprimendo programmi politici rivolti ad uno o più’ versanti della domanda politica.

Per analizzare la domanda politica bisogna distinguere tra 2 dimensioni, quella individuale (legata alla funzione di utilità dei singoli individui) e quella sociale (che ci indica il tipo di relazione emotiva fra le funzioni di utilità dei diversi individui).

Partiamo dalla dimensione individuale.

La funzione di utilità individuale ci dice quanta utilità (ovvero soddisfazione) ci danno i beni (economici e non) di vario tipo che possediamo (anche il piacere di fare un certo lavoro e in genere l’autorealizzazione è una sorta di bene non economico). Un aspetto che va chiarito subito è che tale funzione di utilità è crescente sempre, cioè più beni nel senso suddetto abbiamo e più soddisfazione individuale (e sottolineo individuale) abbiamo. Questo vale anche per gli individui di sinistra (una prima affermazione che possiamo fare è che essere di sinistra non significa essere come normalmente si crede dei nuovi San Francesco che si spogliano di tutte le ricchezze). Tutti se guardiamo solo a noi stessi abbiamo sempre piacere nel possedere più beni. Cosa distingue quindi destra e sinistra da un punto di vista della funzione di utilità’ individuale, atteso che per tutti è crescente? In pratica se ci riferiamo alla dimensione individuale (e dunque alla forma della funzione di utilità) possiamo distinguere fra individui avversi al rischio sociale (di sinistra individualmente) ed individui propensi al rischio sociale (di destra individualmente). Un individuo di destra individualmente tenderà a rischiare di più economicamente di un individuo di sinistra individualmente. Un individuo di destra individualmente tenderà a preferire per se’ stesso per esempio un capitalismo all’americana piuttosto che all’italiana. Un individuo individualmente di sinistra tenderà invece a preferire una situazione meno rischiosa e più protetta all’italiana. Questo non significa che un individuo individualmente di sinistra non possa rischiare ma per rischiare richiede un premio. Se gli offrono un milione di dollari l’anno presumibilmente anche l’individuo individualmente di sinistra va a lavorare in America assumendo il relativo rischio. In pratica essendo la funzione di utilità comunque crescente un reddito di un milione di euro determina per capirci una utilità molto alta anche nell’individuo di sinistra che compensa, detto in modo improprio ma per capirsi la «disutilita’” provocata dal rischio.

Esistono poi ovviamente varie intensità nell’essere individualmente di sinistra o di destra a seconda della forma specifica della propria funzione di utilità. Esistono soggetti individualmente di sinistra o destra più o meno moderata o estremista. Esistono anche gli individui di centro che sono di sinistra quando il sistema è troppo a destra (c’è troppo rischio) e sono di destra quando il sistema è troppo a sinistra (c’è poco rischio) e tendono quindi a portare il sistema in una posizione centrale intermedia rispetto al rischio.

Quindi individualmente essere di sinistra o di destra si riferisce ad amare o non amare per se’ stessi il rischio sociale.

Chiaramente è fondamentale in un sistema economico che sia orientato alla produzione del reddito che esista un numero sufficiente di individui propensi al rischio sociale (individualmente di destra) che svolgano tipicamente l’attività imprenditoriale che è appunto la più rischiosa.

Passando alla dimensione sociale dell’essere di destra o di sinistra dobbiamo introdurre il concetto di funzione di solidarietà che lega le funzioni di utilità dei singoli individui. Tanto più si è solidali con una altra persona tanto più si gode della sua utilità (o soddisfazione). Se si odia invece una persona si gode della sua infelicità (solidarietà negativa). Esempi di solidarietà negativa si hanno normalmente verso la popolazione criminale, e si sono avuti tragicamente nella storia ad esempio nel nazismo.

Conseguentemente tanto più si è solidali con altre persone (tipicamente più povere di noi e di sinistra cioè tanto più si è socialmente di sinistra) tanto più si distribuisce il reddito verso quelle persone. Donare a tali persone infatti massimizza la propria utilità complessiva formata dalla propria utilità individuale sommata all’utilità degli individui verso i quali si è solidali ponderata per l’intensità della solidarietà (ovvero per il valore della funzione e di solidarietà). Questo avviene tipicamente nella famiglia felice forma di organizzazione dal punto di vista economico perfetta.

La redistribuzione è dunque una conseguenza della solidarietà (che lega emotivamente le funzioni di utilità di più soggetti) come del resto è facilmente intuibile oltre che matematicamente dimostrabile. Addirittura si dimostra che nel caso teorico e non reale che i soggetti avessero tutti una uguale funzione di utilità individuale di sinistra e fossero legati l’un l’altro dall’amore universale cristiano, massima espressione dell’essere socialmente di sinistra, si avrebbe una redistribuzione totale in parti uguali del reddito fra i diversi soggetti. Questo come detto in realtà tende ad avvenire tipicamente solo nella famiglia felice.

Chiaramente possono esserci diverse combinazioni nell’essere di destra o di sinistra individualmente e socialmente:

  • Individui totalmente di sinistra sia individualmente che socialmente,
  • Individui totalmente di destra sia individualmente che socialmente,
  • Individui individualmente di sinistra e socialmente di destra (cosiddetti populisti sovranisti),
  • Individui individualmente di destra e socialmente di sinistra (cosiddetti radical chic).

Nonostante l’accezione negativa e dispregiativa che si da’ normalmente al termine radical chic, forse occorrerebbe rivalutare l’importanza della loro presenza nel sistema economico in quanto favoriscono la crescita accettando per se’ stessi il rischio sociale (sono individualmente di destra) e favoriscono la redistribuzione (sono socialmente di sinistra).

Si può concludere quindi che in un mondo economico moderno è necessaria l’iniziativa imprenditoriale individuale soprattutto ad esempio nel creare Start Up (abbiamo detto della importanza dei soggetti che rischiano cioè individualmente di destra per la creazione del reddito). Le Start Up appunto vanno quindi regolamentate con interventi di politica economica di destra (flessibilità del lavoro, agevolazioni fiscali etc.).

Mentre per esempio le aziende cash cow (popolate tipicamente da individui di sinistra individualmente) e che hanno una funzione sociale importante andrebbero regolamentate con interventi di politica economica di sinistra. Come dico nel libro quindi il bravo politico dovrebbe essere almeno dal punto di vista della politica economica non di destra o di sinistra ma selettivamente di destra e di sinistra per favorire l’utilità sia dei soggetti individualmente di destra che dei soggetti individualmente di sinistra.

Fatta questa premessa metodologica cerchiamo di capire cosa sta accadendo nel nostro mondo con riferimento a due temi fondamentali come la tecnologia e la globalizzazione.

Partiamo dalla tecnologia.

Credo che il socialismo inteso come idea di un mondo di pari opportunità tra gli individui è senz’altro vivo. Ma il socialismo reale inteso come sistema tecnico economico di funzionamento della società è definitivamente morto. Questo perché come dicevamo prima l’iniziativa imprenditoriale degli individui è ineliminabile in un sistema economico moderno post industriale e non si può prescindere da soggetti individualmente di destra. La differenza è che nel primo capitalismo industriale l’imprenditore (individualmente di destra) aveva necessità di un lavoro di Back Office alienante delle masse (tipicamente la catena di montaggio); si determinava quindi una contrapposizione fra l’imprenditore (inteso come una sorta di lavoratore creativo che immaginava i mercati di sbocco dei prodotti) e classe dei lavoratori in senso stretto (intesi come macchine alienate da un lavoro di Back Office); oggi invece il lavoro di Back Office grazie allo sviluppo appunto della tecnologia, che è uno dei temi fondamentali del nostro mondo, è sempre più svolto delle macchine e sembrerebbe nell’opinione comune che stia togliendo il lavoro e quindi la dignità alle masse. È tutto il contrario. La tecnologia sempre più sta liberando l’uomo da un lavoro abbrutente di Back Office per regalargli delle opportunità di lavoro creativo rispetto alle quali opportunità dobbiamo essere tutti uguali appunto. Le macchine non sostituiranno l’uomo nel lavoro ma lo libereranno dalla dimensione abbrutente dello stesso per regalargli una opportunità di utilizzo del proprio tempo più “umano”. Si profila a mio avviso, grazie alla tecnologia, una nuova società creativa di relazioni interpersonali più o meno svincolate da un concetto di lavoro in senso classico in quanto il lavoro diminuirà.

Per quanto riguarda appunto la tecnologia amo fare un esempio che faccio a mia figlia adolescente sulla fabbrica di banane.

Ipotizziamo che in una fabbrica di banane si producano 3 banane con 3 lavoratori (nell’ipotesi di scuola che non ci sia l’imprenditore ad ogni lavoratore spetta una banana). Immaginiamo che con una innovazione tecnologica (es. agricoltura verticale) si riescano a produrre nello stesso terreno 6 banane con 3 lavoratori ovvero sempre 3 banane con metà del terreno e con la metà del tempo dei 3 lavoratori. È evidente il vantaggio per tutti dell’innovazione tecnologica ed in particolare modo per i lavoratori che per l’aumentata produttività del lavoro potrebbero guadagnare il doppio a parità di lavoro o lo stesso con la metà del lavoro. Perché allora in un mondo sempre più tecnologico questo non funziona? È semplice. Perché chi porta la tecnologia si prende 4 banane creando un disoccupato e questo è il motivo per cui Jeff Bezos (il fondatore di Amazon) e l’uomo più ricco del mondo, mentre Amazon sta creando molta disoccupazione nel mondo. Ma se si riuscisse in qualche modo a contenere questa dinamica distruttiva (attraverso il vecchio adagio lavorare meno lavorare tutti) la tecnologia sarebbe un fattore positivo liberando l’uomo dal giogo del lavoro più abbrutente.

Questo non elimina il concetto di competizione nella creatività anche imprenditoriale  ma elimina lo sfruttamento di masse alienate da un lavoro di Back Office abbrutente da parte di una élite creativa. La competizione creativa determinerà la distribuzione meritocratica dei beni non riproducibili con la tecnologia come ad esempio il territorio. Anche il territorio oggi meno appetibile potrà essere comunque abbellito e riqualificato grazie alla tecnologia delle costruzioni. Rimarranno i mestieri creativi che tendenzialmente la macchina che non prova emozioni non può fare (ma che può aiutare a fare) come l’architetto, il cuoco, il pittore, il musicista, lo stilista di moda ma anche il ricercatore universitario, il medico, l’insegnante o il consulente nella sua accezione più ampia (anche i bancari/banchieri saranno in futuro – speriamo – sempre più dei consulenti), etc.

Si determina un nuovo mondo di relazioni caratterizzato da una imprenditorialità diffusa dove l’uomo non è più lavoratore che rivendica un diritto di libertà dal lavoro sotto forme di lotte di classe ma è imprenditore diffuso che le macchine aiutano a realizzare il proprio sogno nel cassetto. Sembrerebbe porsi un tema di “adeguatezza” delle masse rispetto a questa nuova creatività diffusa del lavoro. In realtà la tecnologia se guidata da un concetto di redistribuzione corretta da parte della politica (impedendo all’imprenditore tecnologico di prendersi 4 banane) tende a ridurre la problematica di competitività nel consumo rendendo possibile il consumo diffuso a basso costo di molti beni da parte di tutti. Si determina quindi un nuovo concetto di lavoro non più orientato all’accaparramento competitivo da parte di alcuni soggetti di capacità di consumo, ma caratterizzato dall’utilizzo del tempo da parte degli individui orientato alla socializzazione relazionale e anche culturale tra gli stessi. Avremo più tempo libero da lavoro alienante e abbrutente (che tenderà a scomparire) e la nuova scommessa sarà occupare in modo umano e gratificante per tutti il tempo liberato. Oltre ai lavori creativi per inciso sarà a mio avviso importante il trasferimento della cultura fra generazioni (educazione) e tra soggetti (dibattito culturale). Quindi finito il lavoro abbrutente non finisce l’uomo ma inizia una società che si deve preoccupare di organizzare il maggiore tempo libero con attività gratificanti per i singoli individui. Del resto non dobbiamo temere che le macchine sostituiscano l’uomo. Le macchine non provano emozioni e quindi non saranno mai in grado di sostituire l’uomo autonomamente nei processi decisionali in condizioni di incertezza. Questa potrebbe essere a mio avviso la nuova scommessa socialista o comunque la vogliamo chiamare.

Dunque come detto la destra e l’iniziativa individuale imprenditoriale e tecnologica sono fondamentali per la creazione del reddito.

Una corretta redistribuzione del reddito ed in particolare del plusvalore che deriva dalla tecnologia operata con corretti strumenti di politica economica (e favorita in un ambiente socialmente di sinistra) può massimizzare i benefici potenziali per tutti dell’innovazione tecnologica.

Introduciamo ora un secondo tema critico, quello della globalizzazione.

Il welfare è un primo elemento di redistribuzione del plusvalore tecnologico. Ma molti imprenditori lo aggirano in un mondo globalizzato producendo in paesi senza welfare. È un cane che si morde la coda. L’imprenditore per massimizzare il profitto produce in paesi senza welfare e vende liberamente le merci nei paesi con welfare operando di fatto una concorrenza sleale. Questo crea disoccupazione nei paesi con welfare e aumenta la necessità di welfare in tali paesi favorendo quindi ulteriormente i processi di deindustrializzazione in un pericoloso circolo vizioso. La prima idea di politica economica che quindi propongo è la tassa sul welfare che è un primo strumento possibile di redistribuzione.

In sostanza se due mercati sono segmentati nella legislazione del lavoro non possono avere un mercato delle merci libero.

È necessario imporre alle aziende che producono in paesi senza welfare una tassa (o dazio) sul welfare nel momento in cui esportano in un paese con welfare. Questo meccanismo può nel brevissimo termine riprodurre condizioni di concorrenza leale fra i paesi e nel breve termine a parer mio può esportare nel mondo il welfare, che se vogliamo è un obiettivo ancora più importante. I paesi che pagheranno la tassa sul welfare tenderanno infatti per non pagarla più ad avvicinare il welfare dei propri lavoratori a quello dei paesi più sviluppati. Si tratta quindi di una misura per certi versi di destra (per la sua valenza sovranista e protezionista- si tratta comunque di un dazio) ma che realizza un importantissimo obiettivo di redistribuzione (di sinistra) attraverso la diffusione del welfare a livello mondiale. Poi crea anche, tra l’altro, nuovi mercati di sbocco delle merci.

Tuttavia il welfare è a volte insufficiente perché alcuni imprenditori tendono a diminuire troppo il rapporto fra costo del lavoro e profitto imprenditoriale tecnologico anche in paesi ad alto welfare (vedi esempio della fabbrica di banane/Amazon). Può essere utile per questo un altro strumento di politica economica che propongo, cioè una tassa sull’eccesso di profitto generato oltre un rapporto “fisiologico” stabilito in funzione del tipo di settore fra profitto e costo del lavoro.

Questa è una misura esplicitamente di sinistra a mio avviso necessaria per evitare come dicevamo che l’imprenditore tecnologico si prenda 4 banane determinando la estrema polarizzazione tra grandi ricchezze ed estreme poverta’ di cui parlavamo prima a riguardo della tecnologia.

Per redistribuire un ulteriore strumento è l’imprenditorialità diffusa. Per esempio la partecipazione dei lavoratori in parte al profitto attraverso azionariato diffuso che dovrebbe essere fiscalmente incentivato.

Se è vero infatti tornando al tema iniziale che per la redistribuzione è importante una prevalenza di soggetti socialmente di sinistra, è pure importante come detto in un mondo che sarà ad imprenditorialità diffusa quasi in assenza di lavoro di Back Office che i lavoratori si spostino individualmente (e sottolineo individualmente) più a destra accettando una almeno parziale variabilità del salario e quindi in sostanza più rischio. Il rischio nel sistema economico va distribuito perché altrimenti viene concentrato in pochi imprenditori e banche e questo genera o un freno alla crescita o un forte potenziale di instabilità se questi pochi operatori gestiscono male e falliscono.

A parte le misure qui proposte che favoriscono la redistribuzione, da un altro punto di vista è pur vero che anche i meccanismi automatici del mercato, come sostengono i neoliberisti tendono a riportare l’equilibrio. Tecnologia e concorrenza tendono ad abbassare i prezzi e dunque ad alzare i salari reali. Ma non si può lasciare neo-liberisticamente l’aggiustamento al solo mercato perché questo avverrebbe nel lunghissimo termine e “nel lungo termine siamo tutti morti” come diceva Keynes.

La redistribuzione deve essere dunque il faro delle politiche economiche dei prossimi decenni in un mondo polarizzato tra pochi sempre più ricchi e da sempre maggiore povertà a causa dei fenomeni di cui abbiamo parlato causati essenzialmente da una non gestione politica degli effetti economici di tecnologia e globalizzazione.

Così come l’economia è globalizzata anche le misure di politica economica devono essere globali (la tassa sul welfare non funziona se la applica un solo paese) e quindi devono essere prese non da oligarchie (e’ noto come le principali banche centrali, come la BCE ad esempio, siano private e in mano a pochi banchieri) ma devono essere generate da processi democratici sovranazionali.

Alcuni dati per contestualizzare quanto abbiamo detto.

La ricchezza mondiale è di circa 280.000 miliardi di dollari ma nel mondo aumentano i poveri e aumentano le ricchezze dei pochi ricchi. Un dato allarmante è il numero di individui che ancora oggi sopravvivono con meno di 5,5 dollari al giorno, si parla di 3,4 miliardi di persone. Oggi, la metà più povera della popolazione globale possiede collettivamente meno dell’1% della ricchezza mondiale, mentre il 10% più ricco degli adulti possiede l’82% di tutta la ricchezza e il primo 1% ne possiede addirittura quasi la metà.

Se ci focalizziamo  invece sul reddito, il pil mondiale nominale è di circa 85.000 miliardi di dollari. Il pil mondiale a parità dei poteri di acquisto (quello che conta) è di circa 140.000 miliardi di dollari.

Essendo gli uomini 7,7 miliardi con la media dei polli di trilussa  il pil pro capite mondiale a parità dei poteri di acquisto è di circa 18.000 euro. Se per assurdo dividessimo il reddito annuo e la ricchezza mondiale in modo uguale fra tutti gli uomini una famiglia di 4 persone potrebbe vivere con 72.000 dollari lordi all’anno e avrebbe una ricchezza di circa 150.000 dollari. Le risorse dunque ci sarebbero per tutti e forse ci sarebbe spazio per una crescita anche minore e più sostenibile.

Ma, ancora più grave, in un articolo di World Bank del 2018 si dice che il 10% della popolazione mondiale (circa 770 milioni di persone) vive sotto la soglia dell’estrema povertà stimata in 1,9 dollari al giorno. Da questo ambito si determinano 8,8 milioni di morti per fame all’anno. In un mondo di sfacciate ricchezze è intollerabile che ci si preoccupi, giustamente, dei morti per Covid che sono morti “nostri” ma non si faccia nulla per 8,8 milioni di morti all’anno per fame di cui un 30% bambini sotto i 5 anni…

World Bank indica la risoluzione graduale del problema auspicata nel 2030 attraverso la crescita del reddito mondiale. Ma questo significa ad occhio e croce accettare altri 50 milioni di morti per fame circa nei prossimi 10 anni che per una persona sensata è inaccettabile. La soluzione non è solo la crescita ma soprattutto ancora una volta la redistribuzione. Facendo dei calcoli grossolani da approfondire meglio, per tamponare il problema della fame nel mondo immediatamente occorrerebbe tassare il 10% più ricco delle persone che detengono l’80% della ricchezza mondiale per 365 dollari all’anno (un caffè al giorno….). Anche questa del resto è sempre la media dei polli di Trilussa. Di quel 10% che detiene l’80% della ricchezza c’è l’1% (77 milioni di persone) straricco che detiene da solo il 50% delle ricchezze mondiali che può donare (liberamente o attraverso il sistema fiscale) moltissimo di più che un caffè al giorno…

Bisogna poi considerare che il problema della sopravvivenza aggravata dall’emergenza sanitaria comincia ad interessare anche noi seppure in misura molto inferiore e speriamo solo congiunturalmente.

La redistribuzione nel nostro mondo è quindi un imperativo categorico che riguarda:

  • sia strumenti di politica economica tra paesi produttivi tra cui quelli che io propongo (tassa sul welfare, tassa sulla tecnologia, agevolazione fiscale di strumenti di capitalismo diffuso),
  • sia pura liberalità solidale ed esportazione laddove possibile di un modello di funzionamento economico, per i paesi sottosviluppati.

L’obiezione che spesso si fa ad una politica redistributiva su base mondiale è la sua  sostenibilità. Sarebbe lungo trattare compiutamente anche questo argomento ma basta dire, ad esempio che basterebbe indurre la popolazione mondiale ad una dieta un po’ più a base di vegetali e si avrebbe:

  • la tecnologia dell’agricoltura verticale in grado di moltiplicare la resa per ettaro dei territori agricoli,
  • meno inquinamento derivante dagli allevamenti di bestiame (che sono una delle cause principali di inquinamento oltre che causare immensi consumi di acqua).

Tra l’altro per inciso si ridurrebbero le sofferenze indicibili che infliggiamo su larga scala ai poveri animali di allevamento.

Tutto questo può sembrare un obiettivo impossibile, ma forse con un po’ di fantasia è un po’ di ragionevolezza può essere alla portata. 

Bisogna perciò agire ed organizzarci.

L’alternativa è l’implosione del nostro mondo in una conflittualità crescente  fra sempre più assurde ricchezze è sempre più estreme povertà.

Per concludere tra l’altro il libro è pubblicato su Amazon (lupus in fabula)… questo dimostra l’importanza della tecnologia che mi ha consentito di pubblicare senza passare per le forche caudine delle tradizionali case editrici… ma per mettere un prezzo basso corretto (se non ricordo male il libro nella versione cartacea costa tra i 10 e i 15 euro) il margine rimane tutto ad Amazon e jeff bezos, non tanto per il mio libro purtroppo ma per tutto il resto, diventa appunto sempre più ricco….

Il mondo del futuro delineato è già in parte esistente, anche se probabilmente noi non lo vedremo nella sua compiutezza.  Ma dobbiamo indirizzarlo già da oggi per amore dei nostri figli attraverso un percorso come detto soprattutto di redistribuzione rispettosa dell’ambiente. Questo, date tutte le considerazioni effettuate su destra e sinistra, è oggi a mio avviso il ruolo della politica in campo economico perché è quello che definitivamente serve per un percorso di crescita equilibrata, solidale e sostenibile

Inventarsi il lavoro

Ed eccoci qui.

In un momento di crisi economica e sociale dovuto prevalentemente all’avvento del Covid-19. Crisi economica, crisi sociale, crisi individuale, ma soprattutto una crisi che porta a rivedere modelli che in precedenza erano stati dati per scontati, come, primo fra tutti, il modello delle proprie attività lavorative. Molti infatti, ancorati ad un modello idoneo in anni precedenti, si sono trovati in difficoltà e sono stati costretti a modificare integralmente, e velocemente, il proprio modello di business principalmente in un’ottica digitale. Le avvisaglie comunque, al di la dell’emergenza Covid-19 lasciavano presagire una economia individuale basata su modelli fragili rispetto al nuovo che avanzava già prima e che, prepotentemente si è andato facendosi strada: Vendite on line massive stile AMAZON, digitalizzazione della didattica e della assistenza, automazione del lavoro, strapotere delle Big Tech etc. Insomma ce n’era già prima e quindi, arrivata la crisi, molti che non avevano rivisto i propri modelli in tempi non sospetti, non hanno potuto resistere alla ondata e, travolti, sono stati costretti a rivedere la filosofia della propria vita e chiudere o modificare in ritardo le proprie attività lavorative. Molti lo hanno fatto e lo faranno in maniera positiva, come fanno quelli che, sopravvissuti ad un tumore o ad una malattia che poteva essere mortale, hanno lasciato il loro posto di lavoro tradizionale, il loro modello lavorativo, che svolgevano senza interesse, per lasciare spazio alla loro passione, scelta che spesso si è rilevata vincente, oltre che dal punto di vista della soddisfazione personale, anche da un punto di vista economico.

D’altronde, mi è sempre rimasto impresso nella mente il fatto che la parola greca antica ergazomai ovvero lavorare fosse la derivazione del termine ergastolo. Insomma in termini più semplici, lavorare in un lavoro senza passione o interesse, se non quello di arrivare a fine mese, è una condanna, un ergastolo appunto, e se ne percepisce la filosofia di questa considerazione, solamente quando una crisi è in atto. Questo articolo, rivolto prevalentemente al giovane oppure a chiunque voglia vedere sé stesso da un punto di vista differente, tende proprio a considerare una frase che sono solito ripetere all’inizio di ogni corso delle mie lezioni: “pensare ad un cambiamento quando la crisi è in atto, è spesso troppo tardi” e “il lavoro va inventato, va creato, seguendo modelli personali e non tradizionali”. Da qui discende la questione filosofica personale di scelta del modello lavorativo che sostanzialmente si divide in tre categorie:

  1. il modello indipendente di creazione di una attività unica e libera di impresa,
  2. il modello semi-indipendente di acquisizione di una impresa già avviata oppure la affiliazione ad una impresa trainante (come gli affiliati airbnb, oppure le scelte di franchising)
  3. il modello del lavoro dipendente dove, sostanzialmente, si viene pagati per svolgere attività che sono scelte da altri, con la conseguenza di uno stipendio mensile, sostanzialmente fisso rispetto al risultato, se non leggermente variabile, e con la sensazione, falsa, della sicurezza economica futura derivante dalla certezza dello stipendio a prescindere dalla situazione.

Ecco, sono proprio questi i modelli di lavoro ma non è semplice per ogni singolo, sceglierne uno rispetto all’altro. Spesso è un problema di scelta culturale. Ci sono persone che non hanno problemi nello svolgimento di un lavoro dipendente, che ha come obiettivo la massimizzazione del profitto della azienda e non quello della massimizzazione della soddisfazione della realizzazione della vita del dipendente, e ci sono persone che preferiscono come opzione unica, quella della massimizzazione della propria soddisfazione personale attraverso una impresa autonoma che rappresenta una scelta di vita prima che una scelta lavorativa. Per quanto riguarda li modello semi-indipendente (n.2 sopra), si tratta di una via di mezzo tra i due modelli che precedono e seguono. Alla luce di questa classificazione di massima e delle scelte filosofiche che spingono in una direzione o in un altra, va detto che la falsa considerazione della sicurezza del posto fisso è pericolosa in quanto è comunque ancorata ad una attività di impresa. L’unica differenza è che al timone della impresa non c’è il lavoratore ma c’è una seconda persona, l’imprenditore. Da qui discende la decisione di chi invece vede da fuori questa situazione, sceglie per una attività di impresa e sostanzialmente si inventa il lavoro. In questo caso, diversamente da quello che comunemente si pensa, se l’imprenditore segue modelli di passione, si impegna molto e non si ferma mai davanti alle difficoltà, non sarà mai “licenziato”, cosa che invece succede spesso in ambito dipendente, specie nei momenti di crisi. Anche nelle imprese c’è una gerarchia nelle scelte di surplus lavorativo secondo il motto semplice che ho coniato ad hoc e che rende l’idea: “quando nella azienda c’è qualcuno di troppo, quello non è mai il padrone il quale non può licenziarsi da solo”. Ed allora cosa fare in questi momenti di crisi e comunque nei momenti in cui non ci sono crisi in atto ma si vuole rivedere completamente la propria vita lavorativa in una ottica diversa, libera, in anticipo rispetto ad un futuro probabile cambiamento sociale? Bisogna inventarsi il lavoro. Inventarsi il lavoro non significa andare a copiare cose già fatte da altri, ma significa prendere ispirazione dai grandi imprenditori liberi che hanno realizzato attività floride e particolari in tempi molto ragionevoli: Steve Jobs (APPLE), Elon Musk (TESLA etc.), Mark Zuckenberg (Facebook), Larry Page e Sergey Brin (Google) etc. Cosa hanno in comune questi imprenditori? Due cose sostanzialmente:

  1. Hanno avuto una visione nuova che nasceva da una passione,
  2. Hanno iniziato la loro attività senza pensare immediatamente ai guadagni futuri,
  3. Sono partiti buttandosi e pensando a come costruire le ali cadendo.

Sembrano modelli difficili da seguire ma ognuno di noi ha una passione, uno scopo interiore della vita che non può essere banalizzato da attività che si scelgono per tradizione e che non rispecchiano una passione individuale. Oltretutto, mentre una volta comunque, rinunciando alla auto-affermazione individuale, mediante il lavoro dipendente, si riusciva ad arrivare a fine mese con certezza, rimanendo seduti alla stessa scrivania per 40 anni dai 20 ai 60 ed andando poi in pensione, questo modello oggi non funziona più e chi non se ne accorge ne paga prima o poi le conseguenze. Mi ricordo lo scalpore che fece un famoso politico italiano quando disse “precario è bello”. La precarietà però essendo l’essenza della impresa, che di base è precaria, è realmente bella. Certo va aggiunto bella se riesce ad adeguarsi velocemente ai cambiamenti anticipandoli e diversificando le proprie attività.