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Non si può parlare con i Talebani. Si deve

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Non si può parlare con i Talebani. Si deve

di Fabio Valerini

Quello degli Stati Uniti e dei, volenti o nolenti, restanti paesi alleati dall’Afghanistan è stato un ritiro annunciato, ma non programmato nelle modalità di esecuzione.

Giorgio Battisti e Germana Zuffanti hanno sintetizzato l’operazione nel titolo del loro libro in maniera inequivoca: Fuga da Kabul(Paesi Edizioni, 2021).

Ma che cosa ha lasciato dietro di sé quella fuga da un’operazione che aveva l’obiettivo di ristabilire democrazia e libertà?

bandiera dei Talebani

Questo il tema della presentazione della conferenza di presentazione del libro dedicata agli “Sviluppi presenti e futuri dell’Afghanistan” ospitata ieri sera dall’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’ Afghanistan a Roma.

Per il sottosegretario alla difesa Giorgio Mulè l’operazione ha lasciato un abisso: dopo 180 giorni dalla presa del potere da parte dei talebani c’è un’emergenza economica e una crisi economica e alimentare con buona parte della popolazione che ha difficoltà per mangiare.

Aveva, quindi, ragione l’opinione pubblica a non capire il senso della complessiva operazione in Afghanistan dal momento che apparentemente sembra tutto tornato come prima con il ritorno dei talebani al potere?

Forse no, perché qualcosa almeno sulla carta è cambiato. Il ritiro dall’Afghanistan ha lasciato qualcosa che ha preceduto logicamente e temporalmente quella fuga: l’accordo di Doha.

Ambasciata Afgana a Roma

Ebbene, in quell’accordo – certamente delicato sul piano del diritto internazionale – troviamo nero su bianco due aspetti importanti: il riconoscimento dei talebani (quantomeno da parte degli Stati Uniti, ma anche dell’ONU poi a leggere la Risoluzione del 31 agosto 2021) e l’affermazione del loro ruolo come argine al terrorismo (e qui starebbe il passo in avanti)

Ma se dalla carta passiamo all’attuale situazione internazionale sembra che le prospettive non siano delle più immediate e rosee.

A sentire le parole dell’ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Afghanistan in Italia Khaled Ahmed Zekriya la prospettiva sembra essere quella che una parte della comunità stia aspettando il fallimento della politica estera ed interna talebana.

Il non riconoscimento diplomatico da parte degli Stati (anche per lo scetticismo di molti sulla forza di resistenza alle infiltrazioni terroristiche) e la crisi sanitaria ed economica in atto che porta il problema del cibo al primo posto farebbero intravedere, secondo questa prospettiva, il non lontano crollo dei talebani.

L’obiettivo dichiarato sembra essere quello di attendere il vuoto che si potrebbe creare (ma allora perché affidare ai talebani il compito di governare con l’accordo di Doha?) per riuscire poi nella formazione di un governo inclusivo rappresentativo (del quale i talebani faranno parte).

Sembrano esserci, però, tutti i presupposti perché la storia possa ripetersi: cambiano i luoghi, cambiano le circostanze, ma forse, non i possibili sviluppi.

Certo, le influenze internazionali sullo scacchiere geopolitico – come messo in luce da due inviati di primo piano come Alberto Negri e Lorenzo Cremonesi – saranno fondamentali.

Ma qualcosa ci si può prefigurare: è quello che è capitato (e sta ancora capitando) in Libia dopo la caduta forzata di Gheddafi e lo scontro interno tra la Cirenaica e la Tripolitania.

Tra non molto tempo si creerà nuovamente del riconoscimento di chi rappresenta ufficialmente l’Afghanistan sullo scenario internazionale.

Oggi per ragioni varie – tempo, soldi, organizzazione ancora in fieri – troviamo, per esempio a Roma, a livello di rappresentanza diplomatica la Repubblica Islamica dell’Afghanistan: ma che cosa succederà quando l’Emirato Islamico dell’Afghanistan indicherà il proprio ambasciatore?

ambasciatore Afgano

Sarà possibile per l’Italia e per la comunità internazionale non comunicare con i Talebani che rappresentano l’Emirato Islamico quando l’accordo di Doha ha loro riconosciuto una loro legittimità?

Il non voler parlar sembra ripetere le ambizioni di chi esporta democrazia di voler continuare a pensare che tutti i paesi siamo maturi per la democrazia e per la rappresentanza comune senza averlo prima voluto (ancora una volta possiamo richiamare la Libia e l’aspirazione della comunità internazionale alle libere elezioni).

Potremmo ancora continuare a creare esempi di fallimenti internazionali per vedere se prima o poi la politica internazionale ne terrà conto: peccato, però, che questi tentativi non sono a costo zero perché oggi l’Afghanistan ci ricorda drammaticamente che dietro a tutto questo ci sono persone che non riescono a mangiare e a curarsi e per le quali, forse, il problema della rappresentatività come lo intendiamo noi, viene del tutto ovviamente dopo la soddisfazione dei primari bisogni dell’individuo.

Forse se ne è resa conto l’Unione europea (che pure ha precisato che non c’è riconoscimento): inevitabile la necessità della comunità internazionale di parlare con i Talebani al quale il paese è stato (ri)consegnato, ma soprattutto supportare nelle more la popolazione afgana.

E ciò per creare le condizioni (prima quelle materiali) per la tutela di quei diritti che giustamente aspirano ad essere universali e con i quali i Talebani a livello di comunicazione iniziano a doversi confrontare.

Diversamente, l’alternativa sarà il rischio che appare fondato di ritornare come prima annullando i sacrifici di tutti.