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Depp vs Heard e lo standard di prova per i processi del #MeToo

di Fabio Valerini

Il processo Johnny Depp vs Amber Heard verrà ricordato per l’importante copertura mediatica che ha ricevuto e che ha consentito al grande pubblico di assistere on line alle deposizioni in aula.

Quel processo ci porta anche a riflettere su quale sia lo standard di prova che deve essere adottato nei processi del #MeToo, avvertendo che le aspettative, spesso più che legittime, di disegnare una giustizia “su misura” di una certa situazione generale (nel nostro caso le violenze e, in particolare, quelle di genere e quelle domestiche) possono essere realizzate soltanto rispettando i limiti dei principi fondamentali dello stato di diritto.

Nel nostro caso tutto era partito da quanto aveva scritto Amber Heard in un editoriale uscito sul Washington Post nel 2018: Johnny Depp lo ritenne lesivo della sua reputazione e chiese i danni per essere stato diffamato e aver perso contratti di lavoro.

Dopo sei settimane di processo, il 1° giugno 2022 la giuria ha riconosciuto Amber Heard colpevole di diffamazione riconoscendo a Johnny Depp un risarcimento comprensivo di danni punitivi per 15 milioni di dollari (e al quale sembra stia pensando di rinunciare).

È il primo grado di giudizio, le somme sono ingenti e il processo potrebbe andare in appello: troppo presto per poter dire la parola fine ed esprimere valutazioni sullo specifico processo. 

Guardiamo, però, il dibattito che ha preso le mosse dalla sentenza: secondo alcuni l’esito del processo avrebbe indebolito il movimento #MeToo, mentre secondo altri la giuria avrebbe sbagliato nell’emettere il suo verdetto con l’effetto di disincentivare le donne a denunciare violenze sessuali e comportamenti inappropriati.

Ora, è bene ribadire che sostenere le vittime di violenza sessuale e di comportamenti inappropriati nel rivolgersi alle autorità per denunciare prevedendo sistemi di tutela efficaci ed efficienti e che supportino chi denuncia non soltanto è giusto, ma è doveroso.

In questo i movimenti di lotta per le libertà civili – nel quale si colloca anche il #MeToo – svolgono un ruolo fondamentale non soltanto per le singole violenze ma soprattutto nella denuncia di un sistema che non prende sul serio il problema della violenza, della violenza di genere, della violenza domestica, della violenza nell’ambito dei rapporti di lavoro e nelle scuole.

Certamente serve intervenire sulla cultura: la lotta contro la violenza necessita di formazione a tutti i livelli iniziando dalla scuola (prima di tutto dai dagli insegnanti che hanno il delicato compito di educare i più piccoli), dagli operatori di polizia, dagli avvocati, dai giudici, dai medici, dalla società tutta e dalla famiglia a cui compete generalmente la trasmissione intergenerazionale dei valori.

Ma tra i fondamenti della cultura rientra anche lo stato di diritto per come siamo abituati a conoscerlo ed apprezzarlo (o almeno lo spero): le accuse – tutte le accuse e quindi anche quelle di violenza sessuale e di comportamenti inappropriati – non possono equivalere di per sé a condanna del denunciato.

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Non è soltanto questione della presunzione di innocenza (sacrosanta) ma anche e soprattutto di diritto alla prova.
Le sanzioni e le pene, comprese le sanzioni sociali come quelle reputazionali, devono colpire chi è colpevole di quei fatti infamanti.
E stabilire chi è colpevole è compito del sistema giudiziario a seguito di un giusto processo che necessita di prove che devono essere valutate nel contraddittorio delle parti davanti ad un giudice o a una giuria.
I processi non si fanno in televisione, sui giornali o sui social , ma nelle aule di giustizia. È soltanto nelle aule di giustizia che si potrà valutare la credibilità di chi accusa la cui dichiarazione potrà essere poi l’unica prova a carico (molto spesso è difficile che i fatti avvengano in presenza di testimoni), ma dopo aver avuto la possibilità di interrogare e controinterrogare e di aver avuto accesso alle prove (che potrebbero anche essere false come la pratica del deepfake dimostra o acquisire tutto un alto significato).
Ed è proprio intorno a questo aspetto che assistiamo, sia in America che in Italia, a quello che appare un tentativo di minare il fondamento del giusto processo chiedendo sostanzialmente un abbassamento dello standard di prova della violenza commessa.
Se prendiamo tre dei casi più famosi in America (Weinstein – Willy Colby – Depp) possiamo vedere come nel primo caso ci sia stata una condanna, nel secondo alla condanna in primo grado è seguita l’assoluzione, nel terzo l’assoluzione.
Niente di strano: il sistema giudiziario prevede diversi gradi di giudizio e ogni caso è diverso dall’altro.
Ma non si può dire che la giuria o il tribunale sbagliano quando assolvono dalle accuse di violenza e hanno ragione se condannano.
Certo che ci possono essere errori (e per questo ci sono i ricorsi), ma attaccare la bontà dello strumento potrebbe rilevarsi un boomerang perché si attacca l’istituzione deputata ad accertare i fatti e attribuire le responsabilità.
A meno che l’obiettivo dei critici non sia quello di spostare tutto su un altro piano che appare molto, ma molto pericoloso quello della sufficienza della denuncia per far scattare le sanzioni a carico del denunciato avvalendosi poi della forza social dei movimenti.
Anche in questo caso, però, potrebbe essere un boomerang come potrebbe dimostrare proprio il caso Johnny Depp vs Amber Heard: può accadere che l’opinione pubblica decida di appoggiare quello che nella narrazione di parte è il cattivo e di attaccare la vittima (qualcuno dirà che è il frutto delle azioni del cattivo).
L’impressione che sembra trarsi dai commenti è confermata anche dal dibattito su alcune iniziative legislative: prendiamone due, una negli Stati Uniti e una in Italia.
Negli Stati Uniti si discute molto sulla questione dello standard di prova che deve essere raggiunto dai college quando gestiscono le accuse di molestie sessuali e aggressioni.
Una proposta di revisione voleva lasciare libertà di scelta regolamentare tra due modelli: quello della preponderanza della prova voluto da Obama e quello più elevato (e per questo più apprezzato dai garanti dello stato di diritto) delle prove chiare e convincenti.
In Italia la legge per la riforma del processo civile ha opportunamente previsto che in presenza di allegazioni (e, cioè, già in presenza di una semplice affermazione senza necessità che sia accompagnata dalla prova del fatto) di violenza domestica o di genere sia assicurata, su richiesta, l’applicazione di specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria.
Tuttavia, starà tutto nell’interpretazione proprio del concetto di allegazione e nella lettura delle norme che saranno introdotte: una parte dei commentatori ha già messo in evidenza il rischio di una lettura che vorrebbe intendere il riferimento all’allegazione dei fatti di violenza domestica come sufficiente per derogare al sistema probatorio senza necessità di ulteriori prove e senza necessità di verifica.
La lotta contro la violenza ha bisogno di tutti gli sforzi possibili, ma non può autorizzare una gogna mediatica che non consente di difendersi perché le sanzioni e le pene (anche quelle reputazionali) devono essere per il colpevole riconosciuto tale e non per l’accusato senza possibilità di difesa.

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