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Drive my car – un percorso di redenzione

di Andrea Lucrezia Locuratolo

Andiamo avanti in questo nostro percorso volto ad analizzare tappa per tappa la maggior parte dei film nominati agli Oscar 2022. Uno dei film più belli candidati è stato sicuramente “Drive My Car”, premio Oscar come miglior film straniero. La pellicola è tratta da un racconto di Murakami ed è diretto da Ryūsuke Hamaguchi, anche co-sceneggiatore assieme a Takamasa Oe.

Partiamo esponendo brevemente la trama: Oto è una sceneggiatrice di successo che riesce a comporre le sue storie solo dopo o durante un rapporto sessuale, al termine del quale ricorda ben poco, motivo per cui il marito, Yusuke, le riporta sistematicamente quanto gli ha narrato. Nella prima parte assistiamo a quattro eventi che cambieranno radicalmente il corso della storia; infatti scopriamo che Oto non è affatto fedele nei confronti di Yusuke, tanto che lo tradisce con un giovane attore che lavora con lei. Altro evento importante è l’incidente in seguito al quale Yusuke  inizierà ad avere problemi di vista. Inoltre veniamo a conoscenza del fatto che i due coniugi hanno avuto una bambina morta in tenera età. Tuttavia l’evento che ci incanala in maniera più netta nella storia vera e propria è la morte per emorragia celebrale di Oto. 

il regista e gli attori del film

Dopo il compimento di uno dei momenti più drammatici della vita del protagonista, vediamo che gli viene offerto un lavoro come regista per la messa in scena di uno spettacolo multilingue dello “Zio Vanja”, opera teatrale di Chekov. Il luogo destinato alla realizzazione dello spettacolo è Hiroshima, e Yusuke fa una richiesta piuttosto sui generis, chiedendo di avere un alloggio molto lontano dal luogo delle prove, di modo che in macchina potesse ripassare le battute del dramma, grazie alle registrazioni fatte dalla moglie prima di morire. Tuttavia l’associazione culturale che ha organizzato l’evento non permette al regista di guidare a causa dei problemi di vista riportati in seguito all’incidente di cui si è accennato precedentemente, motivo per cui viene affidata un’autista, Watari, a Ysuke, il quale all’inizio non accetta di buon grado che la ragazza guidi la sua macchina. I due nei lunghi tragitti percorsi insieme instaurano un legame molto profondo, che li porta attraverso un lungo processo di redenzione all’elaborazione e all’accettazione dei loro traumi passati. Il titolo del film si trova infatti ad essere una metafora del percorso spirituale e reale che i due personaggi intraprendono.

Japanese director Ryusuke Hamaguchi accepts the award for Best International Feature Film for “Drive My Car” onstage during the 94th Oscars at the Dolby Theatre in Hollywood, California on March 27, 2022. (Photo by Robyn Beck / AFP)

Inizio subito l’analisi di questo gioiello del cinema contemporaneo con una polemica (spero me lo condiate dopo 4 articoli politicamente corretti): è pura follia che il film non abbia vinto il premio come miglior sceneggiatura non originale. Posso accettare che non vinca il premio come miglior regia o come miglior film, alla fine sono cose estremamente soggettive, ed è per questo che per me gli Oscar non hanno senso, come ogni competizione che riguardi l’arte: insomma, guardate Euripide alle Grandi Dionisie, raramente vincente, il meno acclamato nella sua epoca tra i tre grandi tragediografi del passato (Eschilo, Sofocle ed Euripide), eppure è bastato un secolo per farlo diventare l’autore tragico più volte portato in scena. 

Tornando a noi, bisogna riconoscere che nel caso della sceneggiatura di “Drive My Car” ci troviamo davanti ad un adattamento indiscutibilmente superiore per profondità e complessità alle altre sceneggiature in gara, laddove il testo di Ryūsuke Hamaguchi a tratti è più efficace dell’opera originale da cui dipende; la stessa parte introduttiva che ci mette davanti agli occhi il passato del protagonista, non è presente nel racconto di Murakami, ma conferisce un maggior impatto emotivo alla pellicola. Intendiamoci, Murakami è un genio, e io non sono nessuno per dire che il suo lavoro sia peggiore dell’adattamento cinematografico, semplicemente ritengo che le due opere siano perfette ciascuna in relazione al proprio genere. Sicuramente il racconto di Murakami è più misterioso e più psicologicamente accurato (su questo punto torneremo più tardi), tuttavia la pellicola di Ryūsuke Hamaguchi aggiunge dei particolari che hanno un impatto emotivo non indifferente, come il fatto che il protagonista abbia selezionato per il suo spettacolo attori che parlano lingue diverse, proprio per sottolineare il tema dell’incomunicabilità.

Ad ogni modo, credo che non conferire un riconoscimento a questo fantastico adattamento cinematografico sia veramente ingeneroso nei confronti di un autore che è riuscito a tener testa ad un mostro sacro come Murakami, con tutto il rispetto per le altre sceneggiature in gara e con la consapevolezza che se si parla di arte non si può stilare una classifica o definire un “migliore” universalmente riconosciuto. 

Tornando a parlare del film in sé, una delle cose che più mi ha entusiasmata è proprio il tessuto meta-letterario presente, in particolare ritengo che tutti i rimandi letterari, che si intrecciano alla trama stessa, intessendo un gioco di botta e risposta che va avanti per tutto il film, conferiscano una struttura assolutamente eccezionale. 

Analizziamo più da vicino qualche esempio prendendo sotto esame il tema dell’incomunicabilità tra esseri umani: da una parte l’incompatibilità è ciò che il regista vuole sottolineare mettendo in scena “Lo Zio Vanja” recitato da attori che parlano una lingua differente l’uno dall’altro, ma l’incomunicabilità  è anche e soprattutto il rimpianto da cui è affetto Yusuke per la morte della moglie; il protagonista infatti sceglie di allungare il suo tragitto in macchina quando la moglie gli chiede di parlare proprio per paura che lei gli riveli i suoi tradimenti e che questo possa incrinare il loro rapporto, alla base del quale c’è l’assoluta incapacità da parte del protagonista di esprimere i suoi sentimenti e la sua rabbia. In fin dei conti il più grande rimpianto di Yusuke è che, se avesse avuto la forza di parlare con la moglie, sarebbe stato in casa durante l’emorragia celebrale, e magari sarebbe anche stato in grado di soccorrerla.

Altro tema fondamentale che viene affrontato nel film è quello relativo al problema dell’apatia, “morbo” che affligge il protagonista e che ne è il principale rimpianto, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. L’apatia infatti non è che uno dei frutti dell’incomunicabilità umana, che affligge Yusuke con il peso dei rimorsi per la morte della moglie, realizzando che la sua vita non è stata molto diversa da una recita, dal dover controllare i suoi sentimenti, quasi a voler interpretare la vita e il carattere di un’altra persona. Vediamo che questa tematica risulta molto più psicologicamente intensa nel racconto di Murakami, questo soprattutto grazie alla presenza di un narratore onnisciente. Per avvalorare la mia tesi riporto ora una citazione tratta dal racconto dello scrittore giapponese: 

​“Mostrarsi sereno, mentre dentro di sé si sentiva lacerare il petto e ribollire il sangue. ​Portare avanti con noncuranza le solite attività quotidiane, conversare in modo naturale, ​fare l’amore con lei nel loro letto. Non era una cosa alla portata di chiunque. Ma Kafuku ​era un attore professionista. Distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo ​lavoro. E recitava mettendoci l’anima. Una recita senza spettatori.” 

​(Drive My Car – “uomini senza donne”, Einaudi 2014).

Vediamo che però la tematica fondamentale che affronta il film è quella relativa alla necessità di andare avanti, di continuare un percorso, anche a costo di far guidare qualcun altro al nostro posto, un qualcuno che in questo percorso possa redimersi assieme a noi, un qualcuno con cui sia possibile comunicare, perché in entrambi i casi si parla il linguaggio della sofferenza. Watari, infatti, come il protagonista nasconde un passato tinto di ombre e oscurità, dal quale non si riesce a liberare fin quando non instaura un rapporto con Yusuke di reciproco aiuto e redenzione, che porterà entrambi ad allontanarsi dai rimorsi del passato. Alla fine “Drive My Car” non è che un viaggio, un percorso che non sfocia nella sua conclusione, ma che porta davanti alla necessità di intraprendere un altro percorso, con l’aiuto di qualcuno che ci conduca e che ci aiuti attraverso il proprio dolore a superare il nostro. 

Per concludere mi sento di dover dire che il film è talmente colmo di spunti di riflessione che non si possono esaurire all’interno di questo articolo tutte le tematiche, per questo vi consiglio vederlo. 

Buona visione 

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