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”Tutti per uno e non ci importa più di nessuno”

il disimpegno morale collettivo negli sport di squadra giovanili

i Francesca Danioni e Daniela Barni

Platone sosteneva come il valore morale dell’esercizio e dello sport ne superasse di gran lunga il valore fisico. È proprio la natura fortemente sociale e relazionale dello sport, nonché la sua natura competitiva, a renderlo una valida occasione per coltivare comportamenti morali, come aiutare un avversario infortunato, o al contrario rafforzare comportamenti immorali, come imbrogliare al fine di vincere (Kavussanu, 2008).

Tuttavia, soltanto recentemente il tema della moralità nello sport giovanile è diventato oggetto di studio e di ricerca scientifica.

Secondo Albert Bandura (1990, 1999), psicologo sociale di fama mondiale recentemente scomparso, è tramite i meccanismi di disimpegno morale che le persone hanno la possibilità di essere coinvolte in azioni immorali pur mantenendo stabile un’immagine positiva di sé. L’Autore ha identificato otto meccanismi selettivi di disimpegno. Tra questi possiamo, ad esempio, menzionare l’“etichettamento eufemistico”, ovvero la minimizzazione, attraverso l’utilizzo di termini neutri e asettici, degli effetti dell’azione commessa (“In fondo scherzavamo, stavamo solo giocando e non è successo niente”); oppure la “diffusione della responsabilità”, dove l’azione commessa in gruppo permette al singolo di non ritenersi responsabile degli effetti causati dal comportamento nel suo complesso (“La colpa non è solo mia, ma anche degli altri”). Indipendentemente dal meccanismo attivato, l’esito è quello di svincolare momentaneamente la condotta dai principi morali, liberandosi da sentimenti di colpa e vergogna nonostante il comportamento negativo agito. 

La letteratura psicosociale che ha osservato più da vicino il concetto di disimpegno morale l’ha fatto attraverso una prospettiva individuale (disimpegno morale individuale; DMI), ossia considerandolo una caratteristica del singolo; tuttavia, studi recenti hanno messo in evidenza come la moralità non dipenda soltanto da fattori psicologici individuali, ma anche da fattori interpersonali e di gruppo (Gini et al., 2015). Sulla base di queste evidenze, Bandura ha introdotto il concetto di disimpegno morale collettivo (DMC), vale a dire la giustificazione di azioni negative condivise all’interno di un gruppo sociale significativo. Un esempio pratico può essere utile per capire la differenza tra questi due concetti: quando parliamo di DMI ci riferiamo alla credenza individuale per cui prendere in giro non faccia male a nessuno, mentre focalizzarsi sul DMC implica comprendere quanto l’individuo crede che i membri del suo gruppo condividano che prendere in giro non faccia male a nessuno. 

Il DMC è stato originariamente indagato nel contesto del gruppo classe, dove contribuisce all’aumento di comportamenti aggressivi verso i compagni (Gini et al., 2020; Thornberg et al., 2018) fino a veri e propri atti di bullismo. 

Abbiamo, quindi, condotto uno studio che estende l’attenzione a un altro gruppo significativo in età adolescenziale, ossia la squadra sportiva. 

Il nostro studio prende in esame il DMC e i suoi effetti in adolescenti che praticano uno sport di squadra in modo continuativo. A questo proposito, sono state coinvolte 15 squadre giovanili del Nord e del Centro Italia, sia femminili che maschili, di basket (N=2), calcio (N=3), pallavolo (N=9) e rugby (N=1). Hanno partecipato alla ricerca 172 adolescenti di età compresa tra i 13 e i 19 anni (età media = 15.41 anni, DS = 1.73; 51.7% di sesso femminile) a cui è stata richiesta la compilazione di un questionario self-report, cartaceo, volto a indagare alcuni rilevanti aspetti legati al tema della moralità nella loro pratica sportiva. 

Nello specifico, l’obiettivo è stato quello di analizzare la relazione tra DMC dei giovani atleti, ossia la credenza che per la propria squadra sia giusto fare del male per raggiungere la vittoria, e la frequenza con cui gli stessi adottano un comportamento antisociale, volto cioè a danneggiare in modo intenzionale l’avversario o un/a compagno/a di squadra. Dalle analisi condotte sui dati raccolti, è emersa la presenza di una relazione significativa tra DMC e comportamenti antisociali nei confronti degli avversari e – in misura però minore – nei confronti dei compagni di squadra. In altre parole, in presenza di più alti livelli di DMC percepito all’interno della propria squadra, gli adolescenti hanno ammesso di adottare con più frequenza comportamenti antisociali soprattutto nei confronti del cosiddetto “outgroup”, ovvero degli avversari. 

Tuttavia, la letteratura scientifica che studia il comportamento morale dei giovani atleti invita anche a tenere conto della tipologia di clima motivazionale promosso all’interno del contesto di squadra da parte dell’allenatore, il quale non solo insegna competenze tecniche, ma funge da guida e da modello (Kavussanu, 2006; Miller et al., 2005). Nello specifico, un clima motivazionale orientato alla performance si contraddistingue perché il successo è identificato completamente con il raggiungimento della vittoria e l’enfasi è sul confronto con gli altri. I nostri dati confermano chiaramente l’importanza di tenere in considerazione questa variabile, in quanto è emerso che la relazione tra DMC e comportamento antisociale nei confronti dei compagni di squadra, ma non degli avversari, si rafforza in presenza di un clima motivazionale orientato alla sola performance. In altre parole, la relazione del DMC con i comportamenti antisociali verso i compagni – il cosiddetto “ingroup” – dipende dal clima motivazionale all’interno della squadra, in pratica da ciò che viene valorizzato dagli adulti significativi. Sembra quindi che fattori morali, come il DMC, e motivazionali, misurati a livello di squadra, possano lavorare in sinergia nello spiegare i comportamenti sportivi antisociali dei più giovani. Ciò che appare chiaro è la reciproca influenza che gli adolescenti hanno gli uni sugli altri nell’ “esercizio della moralità” nella pratica sportiva, regolata dai macro-obiettivi che il contesto costruisce attorno a loro. 

Che cosa si potrebbe fare, quindi, per promuovere comportamenti prosociali nello sport o quantomeno scongiurare comportamenti tesi a danneggiare l’altro? 

In primo luogo, è importante che gli allenatori e gli altri adulti che interagiscono con gli atleti siano consapevoli che la presenza di una squadra “moralmente disimpegnata” può negativamente influenzare i comportamenti dei giovani, a maggiore ragione se loro stessi promuovono un clima motivazionale in cui il successo è identificato esclusivamente con la vittoria e il superare gli altri diviene unica misura del proprio valore. Inoltre, un dibattito attento rispetto a ciò che i ragazzi pensano essere gli obiettivi della squadra e i mezzi leciti per raggiungerli può consentire la correzione di eventuali percezioni inaccurate, aiutando così a ridurre la diffusione indesiderata di meccanismi di disimpegno morale a livello collettivo e i comportamenti inappropriati che da questi derivano. Tutto ciò affinché lo sport possa essere luogo di incontro più che di scontro, di partecipazione e responsabilizzazione più che di delega. 

Francesca Danioni è Postdoctoral Researcher presso i1Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Daniela Barni è Professoressa associata di Psicologia sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Bergamo

Lo studio completo è pubblicato in Danioni, F., Kavussanu, M., Regalia, C., & Barni, D. (2021). “My teammates think it is alright to fight to protect friends”: collective moral disengagement in team sports. International Journal of Sport and Exercise Psychology, 19(4), 598-612. https://doi.org/10.1080/1612197X.2021.1891119

Francesca Danioni e Daniela Barni
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Francesca Danioni - docente dipartimento Psicologia Università del Sacro Cuore. Daniela Barni Professore Associato alla Università di Bergamo Scienze Umane e sociali

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