venerdì, Aprile 26, 2024
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The French Dispatch: un film troppo sottovalutato

di Lucrezia Andrea Locuratolo

Parliamo oggi di un grande escluso alla cerimonia degli Oscar 2022. Mi riferisco ovviamente al nuovo film di Wes Anderson: “The French Dispatch”, film che a mio modesto parere non ha nulla da invidiare alla ben più acclamata pellicola del regista statunitense, “Grand Budapest Hotel.” 

La trama è molto articolata e prevede la narrazione di tre storie, il cui unico comune denominatore è rappresentato dal fatto che questi racconti verranno riportati nell’ultima edizione del giornale “The French Dispatch.”  La rivista infatti sta chiudendo i battenti per la morte del suo direttore, secondo la cui volontà, l’ultima uscita del giornale sarà riservata al suo necrologio e ai pezzi migliori pubblicati nella storia della suddetta rivista. Tra questi la storia di un pittore criminale affetto da evidenti disturbi psicologici, il racconto di una rivoluzione studentesca con relativa stesura del manifesto e la narrazione di un rapimento in stile fumettone.  

La cosa che subito salta all’occhio, oltre l’intricata sceneggiatura composta con estrema maestria, è sicuramente la fotografia, frutto della fedele collaborazione del regista statunitense con Robert Yeoman. In questo film possiamo vedere i colori brillanti che caratterizzando le pellicole di Wes Anderson esplodere sullo schermo con grande potenza estetica, nonostante vi sia da segnalare anche la presenza di un bianco e nero abbastanza inconsueto nella produzione del regista statunitense. Un’altra meravigliosa firma del regista americano è evidente nelle geometrie delle inquadrature, quasi maniacali, al punto che ricordano molto lo stile di Kubrick.

Sicuramente un altro aspetto che rende il film particolarmente godibile è la vastità delle tematiche affrontate: dalla follia artistica e la dipendenza affettiva al desiderio dei giovani di cambiare il mondo è di goderne le bellezze.

In generale credo che il racconto più riuscito sia “Il capolavoro di cemento”,  dove vediamo rappresentata la  storia di un’artista fuori di testa che si innamora della sua guardia in prigione, la quale diventa la sua musa. In questa sezione il personaggio protagonista viene tratteggiato quasi come un’artista decadente, un Baudelaire pittore potremmo definirlo, il quale, nonostante il suo aspetto rozzo e il temperamento violento, mostra una spiccata sensibilità artistica e un talento fuori dal comune. 

Un altro aspetto particolarmente degno di nota  è la vena ironica presente in ogni racconto, proprio questo aspetto conferisce un’aura di leggerezza anche nelle storie più tristi: serio e comico si mescolano come due facce della stessa medaglia, bilanciando e dando equilibrio al prodotto finale. 

Un difetto che si potrebbe ravvisare, ma che per me non è tale, è la disperata ricerca di uno stile perfetto e compiuto, quasi come se l’autore volesse chiudersi in un castello di ricercatezza elitaria. Tuttavia trovo abbastanza superficiali e degne di poca considerazione le critiche mosse a Wes Anderson per aver creato un film che rappresenta un omaggio stucchevole al suo stesso stile, anche perché, se c’è una cosa che rende un artista fuori dal comune, è proprio il sapersi distinguere e essere in grado di comunicare utilizzando un linguaggio proprio e riconoscibile.

Per concludere ritengo che il film sia estremamente originale, complesso e allo stesso tempo leggero e godibile, soprattutto sono fermamente convinta che meritasse maggior visibilità, in particolare se si tiene in considerazione il fatto che, in un cinema che va sempre più incontro ad un processo di omologazione e standardizzazione, autori come Wes Anderson non vanno solo tutelati, ma acclamati.

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