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La propaganda nell’era della post-verità

Riflessioni sulle Bugie di Guerra

di Fabio Valerini

Oggi ci sono più notizie false di un tempo? Quale peso ha una fake news nell’epoca in cui sembra non essere più rilevante la verità o la falsità di una notizia, ma la notizia in sé? 

Un dato è certo: le notizie false non sono una novità di oggi, il loro uso strumentale non è scoperta recente e non sembrano un’esclusiva di qualcuno.

Nel 1921, ad esempio, lo storico francese Marc Bloch pubblica Les reflexions d’un historien sur les fausse nouvelles de la guerre avvalendosi delle allora nuove acquisizioni della psicologia della testimonianza per spiegare come nascono e come si diffondono le false notizie, talvolta anche senza alcun dolo.

Con la guerra in Ucraina il tema assume una rinnovata centralità nel dibattito politico come dimostra il libro di Francesco Bigazzi, Dario Fertilio e Sergio Germani, Bugie di guerra (Paesi edizioni, 2022).

Il saggio ci offre una storia della disinformazione russa dall’Unione sovietica all’Ucraina raccogliendone gli esempi più significativi a seconda delle diverse strategie adottate (guerra d’informazione, fake news, sostegno a populisti, sovranisti e movimenti estremisti, interferenza nei processi decisionali, corruzione delle élite politiche e pressioni per finire con le pressioni energetiche nonché con la penetrazione economica e finanziaria e logomachia).

a c’è una differenza fondamentale nella strategia della dezinformacija sovietica rispetto a quella odierna di Putin.

La disinformazione sovietica voleva “convincere il pubblico di destinazione che una determinata tesi falsa fosse la verità” mettendo in atto tutti gli sforzi possibili per “dimostrare” che una determinata narrazione falsa corrispondesse alla realtà dei fatti.

La seconda è indifferente all’idea di “verità”: l’obiettivo “è sovvertire il concetto di verità e accreditare l’idea che non esiste una versione “vera” degli eventi, allo scopo di paralizzare il processo decisionale del target cui si mira”.

Dalla volontà di persuadere si è passati, quindi, alla volontà di creare una confusione cognitiva dove esistono “molteplici verità” e in cui “tutta l’informazione è manipolata da qualunque parte essa provenga”. 

Questa confusione cognitiva sembra trovare terreno fertile nel nostro tempo che – a partire dal libro di Ralph Keyes del 2004 The post Truht Era e, soprattutto, dopo il riconoscimento dell’ Oxford English Dictionary del 2016 – sembra essere l’era della post-verità dove i fatti oggettivi appaiono meno influenti nel formare l’opinione pubblica prevalendo l’appello alle emozioni e alle credenze personali.

Sembrano quindi aprirsi almeno due percorsi. 

Il primo è il percorso basato sulla narrazione (o meglio sulle narrazioni) di guerra che comunque intende riferire al pubblico “fatti”: chi veicola messaggi intende giustificare le proprie affermazioni tramite fatti indicati come “veri” (ricordiamoci, ad esempio, le prove poi rivelatesi false per giustificare l’intervento in Iraq).

Se viviamo l’era della “verità” quei fatti devono essere accertati. Ma anche se viviamo l’era della “post-verità” quei fatti devono comunque essere accertati: è una regola fondamentale che non ammette discussione (semmai manipolazione).

La doverosa necessità del fact-checking , però, a sua volta – e forse come in un paradosso – potrebbe creare un’apparenza di verità che potrebbe non esserci.

L’immediato fact checking – per quanto accurato possa essere e necessario per recuperare fonti volatili come possono essere le testimonianze, ma da verificare – può portare ad una “verità” che dovrebbe essere chiamata, però, ancora “provvisoria” (ed è sempre qualcosa in più della narrazione del fatto in sé).

Tuttavia, per la “verità” che possiamo chiamare “processuale” o “storica” (sempre che sia una verità e con l’accortezza che anche quella è soggetta a continua verifica potendo intervenire sempre nuove scoperte) serve tempo, molto tempo: ad esempio è necessario accedere a tutte le fonti come potrebbero essere gli archivi classificati.

L’accertamento della verità è il risultato dell’applicazione di un metodo complesso e talvolta faticoso (ne sanno qualcosa i Trattati internazionali -come quello di Parigi del 1993 – che dedicano alcune norme articolate proprio al tema dell’accertamento dell’esistenza di armi chimiche e anche il funzionamento delle Corti internazionali).

una immagine di una bambina ucraina armata creata ad arte dal padre

In questo contesto (e non solo) si colloca la disinformazione : un“ veleno indolore e insapore” che “si diffonde con l’aria che respiriamo ed è parte di noi”.

È vero che “per un essere vivente il possesso di informazioni corrette sull’ambiente che lo circonda fa[ccia] la differenza tra la propria sopravvivenza e la morte”.

Ma “in quanto essere umani, noi siamo anche portati all’empatia – cioè a metterci nei panni altrui, specialmente se il pathos che proviamo in quel momento è forte – possiamo essere facilmente indotti ad adottarne i giudizi falsi”.

È qui che possiamo collocare il secondo percorso quello basato sul ricorso alle immagini: “le icone e le fotografie colpiscono una parte primitiva del nostro essere, molto addentro alle profondità degli istinti, e inibiscono le riflessione”.

Un esempio di fotografia a forte impatto emotivo costruita appositamente è la oramai celebre fotografia della ragazza ucraina con il lecca-lecca e il fucile che attende l’invasore russo come una vedetta.

Le “immagini nuove e a forte presa emotiva” – sottolineano gli autori – “sono capaci di imprimersi nella memoria eclissando ogni altro concetto … il problema dell’immagine è che non richiede verità”.

Ed è proprio su questa relativa facilità ad essere ingannati che i maestri della manipolazione e dell’inganno agiscono: un primo antidoto allora è quello di conoscere come opera la propaganda in tutte le sue forme recuperando un approccio critico alle argomentazioni (e anche alle immagini) che ci vengono prospettate.

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